La grotta sacra

La grotta sacra.
L’imboccatura della grotta non rendeva proprio l’idea di un qualcosa di anticamente sacro.
Belize – novembre 2010, di Massimo Fusai.

Una grotta sacra. Difficile da immaginare. Sarà per la nostra visione ormai tecnologica, sarà perché abbiamo l’abitudine di osservare cose costruite per uno scopo importante, quindi quella appariva solo per ciò che era: l’ingresso di una banalissima grotta da cui fuoriusciva placido un fiume, che da lì in poi scorreva limpidissimo lungo la campagna.

La nostra burbera guida ci fornì dei materiali necessari, fra cui caschetto e lampade da legare in fronte. Gli abiti di ricambio erano al sicuro sul fuoristrada. Serrammo ben bene i sandali mentre ascoltavamo con attenzione le giuste raccomandazioni su come comportarsi in una grotta dove scorre un fiume. La guida si caricò in spalla un voluminoso zaino impermeabile, con all’interno materiale vario e anche la mia videocamera.

Entrammo in acqua, era fredda e profonda, l’unico modo per affrontare l’interno di un mondo antico e misterioso. La nostra guida si trovava già un bel pezzo avanti e boccheggiando dal freddo accelerammo il nuoto a rana per raggiungerlo fino a un punto dove potevamo appoggiare i piedi sul fondo. La fievole luce dell’ingresso ci agevolava e passo dopo passo proseguimmo immersi in quella penombra e nell’acqua fino al torace. Accendemmo le lampade ed eleganti concrezioni calcaree apparvero ai nostri occhi come coralli senza il mare. La guida ci invitò a non toccarle e posare eventualmente le mani solo dove lo faceva lui.

L’andamento del fiume variava all’interno di quel tunnel che l’acqua aveva scavato in chissà quanti millenni. In alcuni tratti il livello era basso e camminavamo spediti su una base di ciottoli levigati e luccicanti sotto le nostre lampade, in altri punti profonda al punto da costringerci a nuotare contro corrente. Immensi pietroni, crollati dalla volta, formavano delle piccole dighe che ci obbligavano a brevi arrampicate per poterli scavalcare, fino a tornare nuovamente in acqua.

Proprio nell’affrontare uno di questi ostacoli imparammo il significato del pericolo celato in questi anfratti: si trattava di rocce lisce perché levigate dall’acqua, anche se non scivolose. Proprio la guida, mentre cercava di salire sul primo di questi massi, perse l’appoggio del piede destro. Senza equilibrio finì quasi in ginocchio sull’enorme pietra, poi le mani che cercavano un appiglio che non trovò e cadde in modo rovinoso in acqua di schiena, letteralmente a gambe in aria. Il livello del fiume sotterraneo, in quel punto, non superava il mezzo metro.

A noi si gelò il sangue. Si alzò subito in piedi. Era pallido e spaventato, fece cenno che tutto era a posto, noi cercammo di capire se lo era veramente. Controllò le gambe, la sinistra era escoriata e sanguinava non in modo grave. Ci indicò le scarpe, che ritenne essere le principali colpevoli e in effetti erano alquanto consumate. Forse un’eccessiva sicurezza da parte sua, ma lo zaino impermeabile (che a me pareva eccessivo inizialmente) lo aveva salvato da eventi ben più gravi, assorbendo la caduta di schiena sulle pietre del letto del fiume. La lezione era stata fondamentale, proseguimmo circospetti e verificando con maggiore attenzione ogni nostro passo, il cammino era ancora lungo.

Il percorso ebbe termine in un punto per noi imprecisato in quel sottosuolo, nonostante il fiume ancora proseguisse là sotto. La nostra guida ci indicò una parete scoscesa, dovevamo salire arrampicandoci. La scalata non era difficile ma vista l’esperienza precedente eravamo molto attenti (anzi moltissimo). Quasi sulla cima della parete, in un punto leggermente in piano, si apriva una via. Lui ci invitò a levarci i sandali per indossare delle calze che teneva all’asciutto dentro lo zaino.

Eravamo giunti nel luogo sacro della grotta. Agevolati dalla luce di una sua grossa torcia superammo un passaggio stretto fra le rocce, per entrare in un’enorme caverna dalla volta altissima da ricordare una cattedrale, ricca di formazioni calcaree splendide e stalattiti variegate. La dimensione della grotta era tale che la torcia riusciva a illuminare solo piccole porzioni, lasciando il resto avvolto nel nero più assoluto, mentre una curiosa nebbiolina calcarea ci circondava come plancton nell’oceano. Eravamo incantati di fronte a tale immensità.

La guida richiamò la nostra attenzione verso dei cocci raggruppati proprio accanto a noi, erano i resti di ceramiche votive portate fino quaggiù da sacerdoti Maya, ma osservando meglio ci accorgemmo che eravamo circondati da manufatti di vario tipo. Il luogo era delicato e bisognava camminare con attenzione. Tutto questo ci colpì, più della dimensione della grotta.

La nostra guida, da burbera, divenne improvvisamente desiderosa di esprimere la sua passione per questo luogo. In queste profondità e senza possedere delle torce elettriche, degli iniziati Maya giungevano per offrire alla madre Terra doni importanti, doni essenziali per il loro esistere.

Altre testimonianze ci lasciarono a bocca aperta, erano ossa disposte nel terreno, poi un teschio in perfetto stato e completamente ricoperto di cristalli di calcare al punto da renderlo lucente come madreperla. Si trattava dei resti di uomini sacrificati, poi portati qui come estremo dono alla Terra, ovvero colei che dà la vita a tutto. La rappresentazione simbolica del figlio, il sacrificato, che ritorna nell’utero mitico della madre, cioè la Terra.

I resti umani erano tanti, molti ormai celati dalla coltre calcarea che li ricopriva, altri scompaginati da improvvisi torrenti d’acqua durante periodi di grandi piogge che allagano la caverna. Uno di questi scheletri appariva ancora integro e perfettamente conservato, era posto in un angolo protetto e mai investito dalle acque nei secoli. Uno scheletro intero sistemato in una posizione composta, il teschio si mostrava con una vaga espressione sardonica, perfettamente ricoperto di un sottilissimo strato calcareo dovuto all’atmosfera pesante e umida che si respirava là dentro.

La nostra guida era fortemente coinvolta e parlava non solo delle ricerche svolte da archeologi e speleologi negli anni, ma di sensazioni. Infine chiese la nostra collaborazione: spense la grande torcia e anche le nostre poste sulla fronte, quindi con un sussurro ci invitò al silenzio in onore di coloro che riposavano e che possedevano il dono estremo di dimorare nel ventre della madre Terra, nella grotta sacra.

Udire il silenzio ti lascia esterrefatto, in quanto lo senti. È opprimente, sconvolgente, eccessivo e inoltre si avvertiva un qualcosa, forse perché circondati da quegli spiriti pacifici che ci avevano accolto nel loro mondo sotterraneo. Una vertigine di sensazioni investiva la nostra mente, mentre l’unica cosa percepita era il proprio respiro ritmato dal battito del cuore. La torcia si riaccese, la luce restituì cognizione, la razionalità riprese a governarci. Lentamente iniziammo il percorso a ritroso, verso il fiume sotterraneo, verso l’imboccatura della grotta, verso il futuro che noi oggi viviamo credendoci migliori.

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