Yemen

Yemen, di Massimo Fusai. Le mille e una notte non risiedono più nella terra dell'incenso. Le antiche carovane, cariche della preziosa resina profumata, non percorrono più quelle irte montagne dello Yemen. Le spettacolari architetture dei palazzi disegnano la scena di una nazione regnata non più dalla mitica regina di Saba, ma da un’anarchia organizzata resa ufficiale dallo status quo.
Yemen, di Massimo Fusai.

Ebbene sì.

All’epoca del mio viaggio nello Yemen, scoprivo già un paese in cui dimorava un medioevo senza apparenti regole. Al di fuori della capitale, l’unico posto ove vigevano dei principi di facciata, il controllo e il governo erano in mano ai rais di zona e capi villaggio, i quali avevano diritto nel bene o nel male su tutto e tutti e dove nessuno, neppure lo stato centrale, poteva nulla senza il loro consenso.

In queste terre…

In queste terre i giovani adolescenti, esattamente come succede ai nostri, ostentavano con orgoglio quei simboli che rappresentavano la voglia di essere adulti: da noi i cellulari ultima generazione, fra le montagne dello Yemen era il kalashnikov portato a tracolla. Tutti viaggiavano armati, dagli uomini ai ragazzini, in una farsa da far west del ventesimo secolo. L’orizzonte delle esperienze di questa gioventù risultava, e forse risulta ancora oggi, racchiuso all’interno del gruppo sociale di appartenenza e dalle aspettative rappresentate dall’aspro nulla di quei rilievi.

I mercati erano il sunto perfetto di questa condizione: poche verdure e della carne di capra, distese di qat (una foglia allucinogena che tutti masticano), poi armi. Raccontarlo non rende l’idea, eppure pareva essere la normalità della vita di tutti i giorni.

Il controllo del territorio era in mano ai potenti locali e, viaggiando lungo le spettacolari strade dello Yemen, risultava frequente venire fermati da improvvisati posti di blocco formati da giovani armati. In alcuni territori si andava anche oltre, con l’obbligo del pagamento di un pedaggio per il semplice passaggio sulla statale o per visitare un luogo. Così fu per raggiungere l’isolata e arroccata Shihara.

Shihara:

Prendemmo accordi, presso un crocevia molto frequentato, con un gruppo di ragazzi armati incaricati dal consiglio degli anziani di prendere in consegna quegli stranieri desiderosi di visitare il loro spettacolare villaggio. Conclusa la fase delle trattative siamo stati invitati a seguire un pick-up, mentre uno dei giovani armati, mostrandosi sorridente e soddisfatto, si sedeva dentro il nostro fuoristrada.

La pista, dopo una lungo tratto sterrato posto fra assolate gole e distese di pietra, giunse alla base di un massiccio fronte montuoso. Proprio mentre la pista iniziava a inerpicarsi, il pick-up che avevamo davanti si fermò in mezzo. Il ragazzo alla guida comunicò ai suoi compagni che per proseguire voleva ulteriori soldi. Gli altri giovani yemeniti armati si misero a discutere con lui animatamente, noi stavamo silenziosi ad attenere che le cose si dirimessero. Tutto sembrò risolversi e proseguimmo la marcia lungo gli spericolati tornanti che risalivano quelle montagne, coltivate in modo intensivo a kat, fino a Shihara.

Nel villaggio non c’era nessun albergo ma venimmo accolti in una casa organizzata alla buona, formata da un grande stanzone dove dormire a terra e un cesso composto da un buco sul pavimento. Per la visita eravamo liberissimi di girare dove volevamo e fotografare cose e persone (del resto avevamo pagato), anzi un ragazzo un po’ autistico e sempre sorridente ci accompagnò a scoprire tutte le meraviglie di quella zona fuori dal mondo: la cisterna di pietra dove donne coperte dai loro manti attingevano l’acqua, le imponenti costruzioni di pietra e l’antico accesso alla cittadina, un ponte a schiena d’asino appeso sopra una profondissima gola. Alla sera, dopo il tè, conversavamo con i giovani che ci avevano accompagnato, i quali sfoggiavano con fiera baldanza le loro armi.

Il giorno successivo…

Il giorno successivo veniamo congedati e accompagnati da quegli stessi ragazzi fino alla base di quelle alture possenti, poi invitati a proseguire da soli lungo la pista verso quel crocevia in cui li avevamo contattati. Percorrendo la strada del ritorno scorgemmo un pick-up fermo sul bordo della pista in un punto sopraelevato. Il mezzo, non appena fummo prossimi, si mise in moto e scese la collina di gran carriera ponendosi di traverso sulla pista, bloccandoci così il passaggio proprio in un punto in cui le rocce disegnavano una strettoia. Dal pick-up uscì quel ragazzo che il giorno precedente pretendeva soldi dai suoi compagni. Portava con se il suo kalashnikov. Si avvicinò alla nostra macchina con passo tranquillo, poi appoggiò la canna della mitraglietta sul finestrino aperto. Fissò noi e parlò al nostro autista. Voleva altri soldi, seguì la cifra richiesta. Una cosa era certa, aveva deciso che non ci avrebbe fatto proseguire. Rimanemmo abbastanza sgomenti.

L’autista sosteneva di non accontentarlo, perché era stato fatto un accordo con l’intero villaggio. In quei frangenti ci risultò difficile valutare sul valore degli accordi con uno che puntava la canna di un fucile mitragliatore verso l’interno del nostro fuoristrada. Il ragazzo ci osservava silenzioso, poi riprese il suo kalashnikov per sedersi su delle rocce accanto alla strada, sempre tenendo l’arma diretta verso la macchina. I secondi parvero minuti e il da farsi risultò ovvio: dovevamo accontentare cavallo pazzo.

Mentre eravamo intenti a raccogliere i soldi, notammo alle nostre spalle una nube di polvere avvicinarsi di gran carriera. Stava giungendo veloce un altro pick-up. In piedi, sul cassonetto, gli altri ragazzi di ieri. Una frenata brusca, poi tutti scesero di corsa dal mezzo e imbracciando i loro di kalashnikov si mossero verso l’irriducibile e iniziò una lunga discussione.

Il ragazzo seduto sulla roccia sembrava motivare le sue ragioni, ma gli altri dopo un po’ si irritarono e iniziarono ad apostrofarlo puntando le loro armi verso di lui. Anche il ribelle si arrabbiò e alzatosi in piedi puntò il suo kalashnikov verso i tre. La situazione era concitata: come da noi si giunge a puntarsi l’indice accusatorio, qui ci si punta un fucile mitragliatore e il diritto della ragione viene sancito dal numero di armi che sostengono una parte.

Tre contro uno ma alla fine ci fu uno strano accordo e una mazzetta di soldi fu consegnata dai ragazzi a questo cavallo pazzo (che fosse solo un problema di ripartizione fra loro?). Uno dei tre soccorritori andò di corsa verso il pick-up posto in mezzo alla pista, con manovre spericolate lo spostò dal mezzo di strada. Un altro ci fece segno che eravamo liberi di andare e avvicinandosi ci salutò con grande calore.

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