Zapata vive

Zapata vive.
ANTEFATTO - In quei giorni, a Mexico city, gli studenti universitari stavano occupando le facoltà come forma di protesta per la decisione del Governo di privatizzare le Università. Ma all'alba di domenica 6 febbraio 2000, con una azione tipo commando, la Policia Federale Preventiva irrompeva nelle facoltà, malmenando, arrestando e deportando nelle carceri cittadine ogni studente presente. Il tutto in diretta TV, come da standard americano.
MESSICO “San Cristobal de las Casas” – Febbraio 2000, di Massimo Fusai.

Zapata vive.

Erano le sette di mattina a San Cristobal de las Casas, facevo colazione ma ero concentrato su quel canale televisivo che mandava in onda qualcosa a cui non ero abituato. Polizia in assetto antisommossa intenta a invadere una sede universitaria della capitale. Studenti con le mani sulla nuca portati via. I commentatori descrivevano le immagini, molte delle quali riprese da un elicottero. Pareva un telefilm, solo che era tutto vero.

Poi, siccome ero solo un viaggiatore, gli impegni della giornata mi avevano fatto dimenticare quei fatti, anche perché erano avvenimenti lontani e io ero solo in sosta nel capoluogo del Chiapas, centinaia di chilometri più a sud della capitale.

Verso fine giornata:

Passeggiavo per la Plaza Mayor di San Cristobal nel tardo pomeriggio, il tempo era nuvoloso e freddo. Attendevo le diciotto, ora in cui la cattedrale sarebbe stata aperta allo scopo di poterla visitare. Mentre mi stavo avvicinando alla chiesa notai un capannello di persone intente ad ascoltare uno che, in piedi sui gradini davanti all’ingresso principale, arringava la folla presente. Incuriosito decisi di mescolarmi alla gente.

Colui che parlava era un tizio ben vestito con barba e capelli rossicci, un carnato quasi europeo, portava un look sportivo ed una elegante borsa a tracolla. Leggeva dei fogli, i quali documentavano le ultime scelte del Governo in fatto di politica universitaria, nonché tutti i fatti accaduti quella mattina a Città del Messico. Lo faceva con un tono chiaro e deciso, la voce sostenuta ma non alta e le parole venivano articolate con estrema limpidezza e precisione, senza enfasi o arroganza ma con quel piglio sicuro di chi sapeva esattamente di cosa stava parlando.

Il pubblico lo ascoltava in silenzio: erano giovani, anziani, signori con prole, persone all’apparenza borghesi e altre del pueblo meno colto. Il tizio proseguiva a leggere quello che era diventato un documento politico (mi sembrava di essere tornato negli anni ‘70), che accusava il Governo oltre che appoggiare l’azione degli studenti incarcerati. Terminato di leggere rimise assieme i fogli, poi sventolandoli senza platealità invitò tutti i presenti a firmarli, in quanto il suo scopo era quello di inviarli via fax alla capitale per fare sentire la voce del popolo del Chiapas. Scese i gradini della chiesa e le persone lo accontentarono.

Durante quella pausa salì gli stessi gradini un giovane dai tratti più indios, era vestito come un rapper messicano, con pantaloni larghi, maglioni buttati addosso un po’ a caso e un cappuccio. «Compañeros!» Disse richiamando attenzione. Annunciava di essere un membro di un’associazione politica studentesca intenzionata a manifestare in qualche modo la rabbia per quanto accaduto nella capitale. Aveva preparato un programma di massima per una serie di attività da svolgersi nei giorni seguenti, però pareva che la folla fosse poco interessata all’elenco di cose che sciorinava.

Vista la situazione si presentò un altro uomo, anch’esso di una delle etnie presenti nel Chiapas, l’apparenza pareva essere quella di un professore anche se vestiva in maniera molto modesta, non aveva con se una borsa elegante ma bensì una cartellina alquanto consumata dal tempo. Fece una proposta più diretta, quella di non attendere i giorni successivi ipotizzando una marcia spontanea da effettuarsi sul momento per la città. Nacque un conciliabolo fra i promotori di quel sit-in e anche il tizio dalla barba rossiccia partecipava a distanza mentre proseguiva a raccogliere le firme. La gente attendeva incuriosita e io anche. Ben presto venne definito un percorso, che partiva dalla chiesa per fare il giro della Plaza Mayor, transitando anche dietro il Palazzo del Governo e poi le vie principali. La cosa venne decisa in un minuto.

In breve il corteo trovava una definizione, «Compañeros, vamos a la plaza!» Chiamarono i capifila del comitato politico con entusiasmo. Poche occhiate per controllare che tutti fossero pronti poi ebbe inizio la manifestazione: il giovane vestito come un rapper si coprì il volto con il collo del maglione, alzò l pugno sinistro in aria e gridò: «ZAPATA VIVE!» Subito quasi tutti i presenti risposero in coro la medesima frase: Zapata vive. Il corteo prese a camminare mentre il giovane con il volto coperto continua ad inneggiare a Zapata. Udire quel nome mi fece sentire fuori dal mondo, come proiettato in un’altra epoca e non in un nuovo millennio che si affacciava. Eppure, nonostante il nuovo millennio, i bisogni pareva fossero rimasti immutati.

«PREZZO POLITICO, LI-BE-RTA’!» Era Il tizio con la barba rossiccia a scandire un altro slogan, che all’unisono il gruppo di manifestanti ripeteva. Nell’aria echeggiavano gli inni della gente e fra vari “Zapata vive” e “prezzo politico”, il giro della piazza si compiva abbastanza in fretta. A quel punto, come d’incanto,  ecco apparire la polizia. Non erano molti, giunsero a passo svelto con i manganelli alla mano e le pistole d’ordinanza nelle fondine pronte all’uso. Il corteo si sciolse, dandosi appuntamento per il giorno successivo. Non fu un vero fuggi fuggi, ma In breve Plaza Mayor ritornò quasi deserta con la polizia che girava, fino a riprendere quell’aspetto sonnolento tipico delle piazze messicane. Ma è sempre solo apparenza.

Massimo Fusai. Segui su Instagram.