La giostra dei pellicani

La giostra dei pellicani, di Ernesto Berretti.
La giostra dei pellicani, di Ernesto Berretti.

La giostra dei pellicani, dove ci girano tutti: cittadini, delinquenti e la giustizia. Ognuno pellicano per quello che è.

Sicilia, 1946. La stazione di Capotronco di Burgio era la più vicina alle Miniere di zolfo. Gianna non apprezzava che il marito, Angelo Nucella, socializzasse in quei giorni di campagna elettorale. Al tramonto degli spari, tanti e senza note. Due le grida: uno di donna Masina, che a giugno avrebbe partorito, e il secondo di un uomo ferito al braccio, Antonio Guarisco il candidato sindaco per i comunisti. Intorno i colpi delle porte e delle finestre che venivano chiuse da gente già cieca, fuori solo lo starnazzo delle galline.

Aspromonte, 1958. Angelo Nucella e famiglia sono trasferiti in un nuovo scalo calabrese, reso importante per dei lavori stradali. Il figlio più giovane della coppia, detto Duccio, vuole andare all’università e anche fuggire al nord se possibile. Lavora guidando un camioncino per le INA-casa. Un giorno, guidando il mezzo, scorge qualcosa che non doveva vedere: degli uomini a terra e del sangue, poi un carretto trainato da un cavallo.

Giostre di uomini come pellicani:

Trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, questo potrebbe essere il sottotitolo del romanzo. Una storia che rappresenta anche aspetti relativi a culture arcaiche, le quali vivevano e “vivono” su dettami che stanno fuori dalle regole di convivenza civile. Per la famiglia Nucella l’uccisione di donna Masina aveva cambiato la vita e il trasferimento in Aspromonte non migliora le cose. Sono una famiglia unita, sempre più simili a pellicani, pronti a tutto pur di fare sopravvivere i propri cari. Però lo stesso vale anche per gli altri, in particolare per chi Vive dentro le ‘ndrine, (ovvero cosche di andrangheta) le quali sono viste come una sorta di famiglia allargata. Insomma, sono tutti pellicani.

Nelle ‘ndrine il prefisso Don lo detiene il capobastone, per il resto vige la regola che non esistono nomi e cognomi ma solo soprannomi. Picciotti con la doppia vita, quella appunto con il nome e quella con il soprannome. Nessuno si espone, le questioni sono sistemate sempre all’interno della cosca. Questi soprannomi rappresentano in tutto l’essenza del personaggio: ‘U Fitùsu, ‘u Putrusìnu, ‘u Zzoppu (con due zeta per sottolineare meglio la sua condizione), ‘u Milòrdu con il Facis doppiopetto (chi ha la mia età sa benissimo cosa era l’abito Facis).

Michele Cittarà è un capo cosca di zona, comanda tutti i suoi picciotti e decide della vita e della morte. Così come ha deciso la fine di un sindacalista, Paolo Mosiato chiamato Stalin. Purtroppo l’omicidio viene gestito male da uno dei picciotti, infatti muoiono anche due carabinieri e questo diviene un problema. Vanno evitate le guerre con lo stato e soprattutto va dato in pasto ai carabinieri un colpevole che non sia della ‘ndrina.

Questo punto diviene, a parere mio, l’aspetto più interessante di tutta la narrazione, fino ad affrontare temi pesanti riguardanti la giustizia del nostro paese. Troviamo molta cinematografia che ci illustra tali storture del sistema, e non serve per forza andare agli anni successivi alla fine della seconda guerra per giustificare gli errori, perché anche vicende odierne ci aprono gli occhi su questi fatti. Questo romanzo riesce a farci partecipi dell’assurdo.

La giostra in un romanzo:

Un romanzo che quindi affronta argomenti difficili, ma tiene sempre la storia sopra la linea di galleggiamento e pertanto rende approcciabili al lettore elementi complessi. Lo stile non risulta di quelli aggressivi, con situazioni mozzafiato che incalzano in maniera continua, bensì l’autore mantiene i ritmi legati al periodo storico: anni che vanno dal 1946 fino a 1998 (epilogo escluso). L’incastonare il romanzo nel contesto di quelle epoche rende la storia molto reale, come percezione, e fa capire che dietro è presente una ricerca.

La questione della ricerca non è affatto banale, perché l’origine della storia pubblicata ha delle basi reali. Infatti l’autore ci confida che ha preso spunto dopo un incontro con un clochard, che potrei immaginare casuale, il quale apparso dal nulla è poi tornato nel nulla quando ha sentito prospettarsi l’idea di un romanzo dal suo racconto. Di quell’incontro esiste un testimone, per cui non ho nessun dubbio si tratti di cronaca vera (che a proposito, negli anni settanta era una rivista che imperversava).

Una ultima sottolineatura la voglio fare per il linguaggio e l’uso costante della parlata calabrese. Mi rendo conto che nella letteratura moderna il dialetto spiazzi molti lettori, ma è giusto ricordare che nel 1958 (per esempio) in tutta la penisola e in ogni regione si parlava secondo l’uso comune e non certo in italiano forbito, cosa che è arrivata molto dopo e grazie all’impegno della scuola pubblica.

Lo scrittore

Ernesto Berretti è nato a Catania nel 1968, vive e lavora a Civitavecchia. Da bambino sognava di fare il fotoreporter e nel tempo libero ha allenato canottieri, ma è diventato un uomo della Guardia di Finanza e prima ancora militare impegnato nei Baschi blu nella UEO “Danube Mission, a Calafat”. Di quel periodo l’autore ha pubblicato un libro che racconta quella esperienza, libro di cui ho avuto il piacere di parlare. Come autore è impegnato con il collettivo degli Autori Solidali, scrive racconti per sostenere chi ha bisogno; con l’associazione Book Faces promuove la lettura e iniziative culturali.

“… in una giostra come questa, dove si crepa per ordine di qualcuno, e dove il bene non riesce a vincere sul male.”

Massimo Fusai. Segui su Instagram.