L’epilogo viene di solito inteso come la conclusione di una storia. La sua mancanza significa rifiutare di dare un senso definitivo alle proprie vicende. Forse l’epilogo non segna solo una fine pura e semplice, ma anche un inizio.
Viene chiamato lo scribacchino degli ippocastani. Un senzatetto di poco conto, che dimora in una panchina, come altri nella sua stessa condizione. Passa la maggioranza del tempo con dei blocchetti per gli appunti in mano e una penna sempre efficiente e nuova. Forse uno strambo poeta, forse un pazzo. Lui scrive storie, fantastica sulla gente che vede transitare, ma non riesce a dare una fine a quelle storie.
Stefano Riveli è uno scrittore che sta raggiungendo una certa notorietà, grazie anche alle buone posizioni all’interno di premi prestigiosi. Un critico lo incalza e sostiene che il successo di Stefano sia principalmente dovuto ad una ottima pubblicità: qualcosa non torna in quello che scrive.
Rachele è al primo giorno di liceo, un nuovo inizio che le ricordava la scuola media. Presto scopre l’antipatica iniziazione che devono subire i primini il giorno 11 di ottobre. Lei vorrebbe evitare l’umiliazione di quella giornata e riceve per quello una proposta: rubare gli appunti allo scribacchino degli ippocastani.
Lo scribacchino, Stefano Riveli, Rachele figlia di Stefano. Un trittico ben definito che conducono il lettore a un epilogo.
Epilogo in senso assoluto:
L’epilogo segna la conclusione di una storia ma mai la fine di tutto. Un cerchio si chiude per aprire un’altra vicenda che porterà inevitabilmente a un nuovo epilogo. Così è la nostra vita, un susseguirsi di eventi a volte brevi e a volte lunghi anni, momenti che troveranno un completamento logico in una sequenza di epiloghi.
A questo ci vuole portare il romanzo, a una conclusione che apre a nuovi spiragli, mentre c’è chi non riesce più a cogliere il valore di arrivare al punto finale. Una vicenda che si snoda coinvolgente, fino a raggiungere i tratti del thriller senza debordare in modo specifico nel genere. I colpi di scena servono più da cornice al vero mistero disegnato intorno allo scribacchino.
Riflettendo bene sulla questione, devo precisare che scrivere un finale è un dettaglio che può sembrare banale, invece è un punto cruciale del lavoro di uno scrittore. Il finale di un libro può segnare il confine fra l’eccellenza e la mediocrità, fra la bellezza e la delusione. In un romanzo il finale è tutto.
Chi scrive riflette molto sul come impostare l’epilogo di una storia. Spesso diviene il punto che conduce un autore a continue riscritture, se non addirittura a un cambio vero e proprio. Non è pleonastico affermare che si tratta dell’ultima cosa che si scrive. Pertanto scoprire una storia che parla di un uomo che ha un vero e proprio blocco per gli epiloghi, lo considero interessante, soprattutto per il suo “epilogo”.
Gabriele Dolzadelli, classe 1988, della provincia di Sondrio. Uno scrittore giovane e ancora poco noto, ma che si è molto impegnato nel contesto della letteratura e della cultura. Uno scrittore che imposta una storia intorno al mondo degli scrittori, ben sapendo che sono (siamo) tutti dei personaggi strani. Manie, debolezze, timori, scelte azzardate o motivate. In tutto questo la mania di scrivere e di essere riconosciuti per quello che si scrive.
L’autore ha già vissuto l’esperienza dell’esordio con una serie di romanzi imperniati su storie di pirati, poi un romanzo di fantascienza. Quindi uno scrittore che non si è voluto legare a un genere letterario specifico, nonostante l’inizio. Con questo romanzo si addentra in ambiti completamente diversi, che ci dimostra un buon approccio alla narrazione senza fossilizzarsi in un solo ambito.
Chissà se vale per molti di noi, ritrovarsi condannati “a rimanere per l’eternità a galleggiare nell’oceano e a non vedere mai la fine della propria storia”.